Viaggio nel cinema degli anni ’80

I diversi modi di raccontare una storia: da Spielberg a Tim Burton

Spielberg e Donner, I Goonies, 1985
S. Spielberg e R. Donner, I Goonies, 1985

Chi ci segue ormai da un po’ sa che quando parliamo di cinema ci troviamo davanti una scelta davvero infinita di titoli, generi, modi diversi di raccontare storie, attraverso immagini, parole, musica. Finora ci siamo soffermati su due icone in particolare: Terry Gilliam, maestro del cinema visionario, che ha raggiunto l’apice con Brazil nel 1985; Lars Von Trier, il genio incompreso e sempre sopra le righe, con il suo cinema privo di inibizioni, che ha ottenuto il primo successo nella seconda metà degli anni ‘90 con Le onde del destino. Abbiamo aperto un breve excursus sulla Berlinale, dando spazio al ritorno di Adam McKay ed al suo modo di smascherare la realtà attraverso il cinema.

Ora ci sembra giunto il momento di andare a spaziare su alcuni film dove il regno dell’ordinario si trasforma in qualcosa di straordinario senza alcun bisogno di deformazioni, poetiche cerebrotiche o  scelte stilistiche forse troppo ragionate. In pratica ritorniamo al fine principale del cinema: quello di raccontare una storia. Andiamo così a spasso negli anni Ottanta ad Hollywood, dove la fantasia prende piede grazie ad un’ottima sceneggiatura e ad una buona mano sulla camera che ci racconta una storia. Andremo a seguire il percorso dei protagonisti, nella loro ordinarietà, che già dopo i primi minuti si ritroveranno immersi in qualcosa di straordinario, portandoci a vivere un’avventura come se fossimo al loro fianco.

The Goonies, 1985

Donner e Spielberg, I Goonies, 1985
I Goonies con R. Donner (a destra) e S. Spielberg (al centro), 1985

Paragonati ai film con grandi effetti speciali che hanno visto il genio di Steven Spielberg prendere la scena negli anni Settanta e Ottanta – Incontri ravvicinati del terzo tipo del 1977, ET l’extraterrestre del 1982 – e i film di Richard Donner, tra cui il primo Superman nel 1978, la collaborazione tra i due ottiene un successo che ha reso immortale il prodotto ottenuto. The Goonies infatti è e sarà sempre uno dei film che ha segnato e continuerà a segnare intere generazioni.

Uscito nelle sale nel 1985, questo film sfrutta l’arte del cinema per raccontare una storia che inizia con qualcosa di ordinario: lo sfratto esecutivo di molte famiglie – se ci pensate purtroppo è ordinario e quotidiano ancor oggi – da una cittadina, per lasciare spazio ai ricchi e ai loro trastulli; e qualcosa di straordinario: trovare una mappa nel proprio solaio, ricordare le favole raccontate dal padre sui pirati e partire alla ricerca di un tesoro che, seppur mitico, sarebbe l’unica speranza per i Goonies, “gli scarti”, di restare nella città che li ha visti crescere. The Goonies è ancor oggi un film del quale non si riesce a fare a meno, pietra miliare di tanti giovani che hanno deciso di seguire i propri sogni con l’augurio di riuscire a consacrarli. Lo stile in questo film ci permette non solo di essere spettatori ma anche di riconoscerci in uno dei tanti caratteri presenti, restando sempre nel vivo dell’azione grazie a una regia che non prevede scelte stilistiche o artistiche troppo alte che rischierebbero di alienare lo spettatore allontanandolo dalla storia, vera protagonista della vicenda.

Arma Letale, 1987

Donner, Glover e Gibson, Arma Letale, 1987
R. Donner, D. Glover e M. Gibson sul set di Arma Letale, 1987

Richard Donner negli anni Ottanta è dietro la macchina da presa di parecchi film. Tra questi, dopo The Goonies, vogliamo ricordare The lost boys, dove si evidenziano le doti registiche in direzioni più corali rispetto a un protagonista unico come nei primi Superman. Ma è proprio a cavallo di questi due film, dove l’arco narrativo s’intreccia a storie di gioventù, che nasce il primo capitolo della saga di Arma Letale, conclusa con il quarto capitolo nel 1993. In questi ultimi anni si è pensato ad un quinto capitolo ma Mel Gibson ha rifiutato di partecipare a meno che non ci fosse stato ancora Donner dietro la macchina da presa. L’amicizia infatti tra i due attori protagonisti, Gibson e Glover, ed il regista, va oltre la saga, avendo lavorato insieme anche a Maverick nel 1994.

Ma torniamo ad  Arma Letale. I primi due capitoli, datati 1987 e 1989, seguono lo stesso meccanismo dei film precedenti; la sceneggiatura è come sempre il pezzo forte, ma questa volta non ci si ferma qui. Al contrario, si approfondiscono sempre di più i personaggi principali, valorizzandone punti forti e deboli. Attraverso la macchina da presa prendono forma le differenze tra i due protagonisti, dettate dal passato e dalla vita quotidiana. Danny Glover è un detective con moglie, figli, mutuo, salvadanaio per l’università. Il suo obiettivo è quello di arrivare vivo alla beneamata pensione che, fin dal primo capitolo, sembra debba giungere ad ogni inizio ma finisce sempre per venir posticipata, non solo per il  senso del dovere, ma per il profondo senso di amicizia che si andrà a costruire man mano con il partner. È proprio l’amicizia la protagonista di sfondo nel primo capitolo: Mel Gibson è appena stato trasferito ed è un detective con crisi depressive e autolesioniste. Quando vengono obbligati a fare squadra, il primo pensiero che ci passa per la testa è “Se Mel Gibson non muore è solo perché Danny Glover lo salva”.

Donner nei primi due Arma Letale è pulito e diretto. Ci mostra il lato umano e profondamente disperato di Mel Gibson quando pensa al suicidio e il suo lato fuori controllo e vendicativo quando la sua ferita interiore viene riaperta. In contrapposizione ci mostra il suo partner, Danny Glover, padre di famiglia, amato e rispettato, geloso dei propri figli e premuroso nei loro confronti. Anche Mel avrebbe voluto essere padre. Ed è proprio da questo passato che lo consuma che hanno preso vita i primi due film della saga, che hanno posto i presupposti per l’evoluzione del personaggio nei successivi due episodi.

Un nuovo modo di fare cinema

Rambaldi, ET, 1982
ET, disegnato e costruito da C. Rambaldi, 1982

Anche Spielberg dal canto suo ha seguito un percorso variegato, dove la fantascienza ha avuto di sicuro molto spazio, ma non è stata l’unica cifra stilistica. A cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 vediamo il nome del regista su moltissimi cartelloni, dalla saga di Indiana Jones a quella di Ritorno al futuro, da Lo squalo a Gremlins. Tutti questi film vedono al loro interno grandi effetti speciali, scenografie monumentali e collaborazioni con alcuni dei più talentuosi artisti in fatto di puppet e macchine di scena. Non dimentichiamoci la collaborazione con Carlo Rambaldi, vincitore di tre premi Oscar per gli effetti speciali, tra cui quello per ET l’extraterrestre.

La cinepresa nei film diretti o scritti da Spielberg segue perfettamente le regole del gioco. Non ci sono pianisequenza, non c’è arte scomoda, ma solo quella necessaria ai fini della narrazione: la camera riprende e noi siamo lì, spettatori di quel che succede. Difficilmente lo stile di Tim Burton sarebbe riuscito a rendere allo stesso modo i momenti presenti in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ma una domanda è lecita: se ci fosse stata la mano di Burton in alcuni dei film di Spielberg, come sarebbero stati?

Proprio Tim Burton infatti, sul finire degli anni Ottanta, entra a piedi pari nel grande cinema con Beetlejuice, che, raccontandoci la storia di due defunti e di un aldilà disordinato alla pari del nostro mondo, infiamma con le sue creature le platee di tutti i cinema. Dissacrante, espressionista sia con le luci che con l’uso dello spazio, Tim Burton genera un vero e proprio modo di fare cinema che esalta la camera per dare uno sguardo distorto della realtà, non più linda e pulita come per i film di Spielberg, ma falsa, corrotta e sporca. Nell’89 dirige il primo capitolo della saga di Batman, con protagonista il suo fedelissimo Michael Keaton che, dai panni del cattivo Beetlejuice, entra nella divisa dell’uomo pipistrello per combattere e difendere la città di Gotham dai criminali che la società stessa ha generato, preludio ad un lungo cammino con alti e bassi ma ricco di genialità artistiche nelle scenografie, nelle creature, nelle storie e soprattutto nei suoi personaggi.

In conclusione…

Abbiamo fatto passare una carrellata di film famosi, giunti fino a noi per stimolarci e per non lasciarci consumare dai sacrifici che la vita comporta. Come avete potuto notare non c’è nulla di italiano e questo ci provoca un senso di dispiacere. L’augurio è che il nostro cinema non continui a restare indietro anni luce dalle produzioni oltreoceano ma al contrario, che vengano considerati di più gli indipendenti, che venga data una ringiovanita seria al sistema cinetelevisivo nazionale e che si renda l’intero settore accessibile e remunerato, garantendo l’impiego a quanti lo meritano, come vale per tutti gli altri lavori.

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