La letteratura e la storia: i Lager e Primo Levi

Se questo è un uomo: storia di non uomini

Levi, 1978
P. Levi, 1978

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager” – Primo Levi, Se questo è un uomo

In questo preciso momento storico, nell’anno che da una parte celebra il cinquecentenario della morte di Leonardo, apice della cultura mondiale, e dall’altra vede il dilagare di un odio irrazionale contro il “diverso”, credo che si renda necessario parlare di un caposaldo della letteratura: Se questo è un uomo di Primo Levi. È necessario conoscere la storia per evitare i “corsi e ricorsi storici” di cui parlava Vico nel ‘500 e in cui sembriamo destinati a cadere.

Del legame tra Se questo è un uomo e l’Inferno dantesco si è già parlato diffusamente. Un paragone che funziona per la differenza sostanziale che c’è tra Inferno e Lager: nel primo si sconta una pena per i propri peccati, nel secondo si pagano colpe inesistenti senza alcun motivo.  L’Inferno viene apertamente richiamato da Levi, che racconta di aver citato passi del Canto XXVI (il canto di Ulisse) a un suo compagno di prigionia; e racconta che questo attimo di riflessione lo ha riportato alla dimensione umana dopo mesi di sopravvivenza meccanica.

Ma quello che a noi preme qui è raccontare la storia dell’uomo “al di qua del filo spinato”.

Il viaggio

Auschwitz, Arbeit Macht Frei
Ingresso di Auschwitz, Arbeit Macht Frei

Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra

Primo Levi, classe 1919, è un giovane partigiano ebreo quando viene catturato, il 13 dicembre 1943. Durante la guerra si sapeva di dover evitare di essere catturati, ma nessuno sapeva cosa succedeva a chi veniva preso. Levi viene portato a Fossoli, Modena, in un campo di internamento, dove in breve tempo gli italiani rinchiusi arrivano a essere oltre seicento.

Il 22 febbraio 1944 vengono tutti stipati su un treno diretto nel nulla. O meglio, come si scopre solo alla partenza, diretto ad Auschwitz. Dopo quattro giorni di viaggio rinchiusi senza acqua e senza cibo, i prigionieri vengono fatti scendere dal treno. Fino a quel momento possono ancora sperare di salvarsi, le SS non sono state troppo dure con loro, “ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno”.

I prigionieri, scesi dal treno, vengono rapidamente selezionati. “Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla”.

Ma a questo punto, mentre la tristezza si mescola all’angoscia di cosa succederà, accade un fatto strano e premonitore della condizione futura di Levi e di tutti i più fortunati degli sventurati con lui. I prigionieri vengono circondati da quanti erano stati deportati prima di loro, che portano via i loro bagagli. Nello sbigottimento generale “una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così”.

Il lavoro

Auschwitz, Baracche, 1941
Auschwitz, Baracche di legno, 1941

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga

Levi e i suoi compagni vengono condotti alle docce, rasati e privati dei loro effetti personali. Nessuno si cura di rispondere alle loro mille domande, e anzi i deportati li deridono per la loro ingenua e mal riposta speranza che ci possa essere una salvezza. Dopo queste operazioni viene tatuato loro il numero. “Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro”.

Poi, abbandonati e volontariamente ignorati, i nuovi arrivati vengono rinchiusi in una baracca ad aspettare l’orario di cena, in attesa del ritorno dal lavoro dei loro compagni di prigionia. Le domande si spengono velocemente, e ancor prima si impara che nulla si ha e tutto serve. Dal giorno successivo saranno messi al lavoro anche loro, e non ci sarà più ieri né domani.

I primi giorni di Levi passano con continui trasferimenti da un blocco all’altro, con costanti cambi di baracca e di “lavoro”. Il lavoro è sfiancante, ma la fame e il non sapere lo sono di più. Le notti passano in un sonno inquieto tormentato dalle domande a cui tutti si rifiutano di rispondere e dalla fame che la mattina verrà placata dal pezzetto di pane, “il sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua”. Ma quel poco pane è anche l’unica moneta di scambio, e Levi deve rinunciare a una parte della sua razione per barattarlo con il cucchiaio per la zuppa.

Le ore del giorno passano vuote, le menti sono vuote. Levi impara presto che non deve ricordare, non deve pensare. Il massimo del futuro in cui può sperare è la zuppa della sera, per placare quella “fame fame fame” che Franco, un altro deportato italiano, ricorda come unica compagna nel Lager. “Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche”.

L’ingiustizia e l’umanità

Auschwitz, Recinzione con alta tensione
Auschwitz, Recinzione con fili ad alta tensione

Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme con il segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo

Levi non pensa al domani che in rari momenti di disperata lucidità. L’unico miracolo in cui può sperare, e che accade, è che, lentamente e dolorosamente, i giorni passino. Ma in questi mesi Primo Levi ha capito che il Lager è un mondo a sé, al di là del bene e del male; rubare non è un furto, approfittare delle debolezze di un altro non è malvagità. È la dura legge della sopravvivenza. “Qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo”.

Non che Levi sia sopravvissuto senza l’aiuto di qualcuno. Primo tra tutti Alberto, un suo conoscente nella sua stessa condizione di prigioniero. I due, stretti dalla necessità, diventano profondamente amici e si aiutano in ogni momento; insieme trovano il modo di riuscire a barattare molti oggetti di loro invenzione per un po’ di zuppa in più, e si consolano nel raccontarsi le reciproche giornate. Tra di loro non esiste invidia, ma solo fratellanza e mutuo aiuto. E poi Lorenzo, un italiano esterno ad Auschwitz; forse l’unico che decide di aiutare un deportato non per proprio interesse ma per pura umanità. Due uomini, due amici di Levi, che saranno uniti dalla stessa sorte: la morte.

Gli ultimi mesi e la liberazione

Auschwitz, Camera a gas
Auschwitz, Camera a gas

Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice

Con il tornare dell’inverno, le speranze di sopravvivenza diminuiscono molto. Levi però ha la fortuna di essere assegnato al neonato laboratorio di chimica del campo, e così può passare i mesi invernali al caldo. Tutt’intorno, gli alleati combattono ferocemente per sconfiggere la macchina tedesca, ma i deportati non danno molto peso alle notizie che gli arrivano: “Per noi, la storia si era fermata”.

Nonostante lavori al caldo, la denutrizione e la fatica perseguitano Levi, che si ammala di scarlattina. Viene ricoverato pochi giorni prima che i nazisti decidano di abbandonare Auschwitz per fuggire dai russi. I prigionieri che riescono a camminare vengono portati via in una marcia sfiancante; gli altri vengono abbandonati. Levi è debolissimo e resta nella sua cuccetta, nel campo, pronto alla morte.

Passano giorni interminabili. Levi e alcuni compagni fanno di tutto per non soccombere al freddo e alla fame. Dieci giorni infiniti. E poi, finalmente, quella speranza morta diventa realtà: sono liberi.

Sapete come si dice «mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina”.

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