Rutger Hauer e Blade Runner

Avvenieristica reliquia di un futuro vetusto

Rutger Hauer in Blade Runner
R. Hauer, Blade Runner, 1982

Questo contributo è prima di tutto un omaggio a Rutger Hauer, venuto a mancare il 19 luglio scorso. Buon viaggio, la forza della tua recitazione rimarrà nella storia del cinema, ben lungi dall’essere lavata via come lacrime dalla pioggia.

Blade Runner (1982) è una trasposizione piuttosto libera del romanzo Do Androids Dream Electric Sheeps? di Philip K. Dick, tormentato scrittore di natali californiani la cui fama esplose dopo la sua prematura dipartita, nel 1982, pochi mesi prima che il capolavoro di Ridley Scott sbarcasse nelle sale cinematografiche.

Dick trascorse gran parte della sua esistenza a scrivere a velocità vertiginosa a causa di ristrettezze economiche. I romanzi di fantascienza venivano pagati poco e per sopravvivere bisognava scriverne molti. I risultati furono oggettivamente alterni: anche se le idee tracimano sempre dalle pagine, alcuni suoi libri semplicemente non funzionano, per ritmo narrativo o per una palese fretta di consegnare il manoscritto. Do Androids Dream Electric Sheeps? – che certamente rientra nel novero di romanzi di Dick talmente profondi da essere struggenti, con un finale che (un po’ come il gatto di Schrodinger, sia morto che vivo) è al contempo devastante ma carico di speranza – uscì nel 1968 e precedette un altro capolavoro dello scrittore, ovvero Ubik (1969).

Philip Dick fu un romanziere profondamente umanista; le tecnologie ardite e gli scenari futuribili erano spesso goffi plot devices per scandagliare una serie di problematiche profonde, tra le quali spicca: cosa ci rende umani? Ma gli Androidi Sognano Pecore Elettriche? Cerca di rispondere a questa domanda, esattamente come Blade Runner. Le differenze narrative fra le due opere abbondano, eppure entrambe sono incentrate sulla stessa problematica, un po’ come due istantanee che ritraggono lo stesso oggetto pur essendo scattate da mani diverse, da una prospettiva differente.

Eppure più si osservano le differenze, più sono evidenti le analogie.

Quello in cui vive il Rick romanzesco è un futuro figliato dalle peggiori paure del periodo in cui è stato scritto il romanzo, un domani – che poi nella trama è il 1992! – segnato da una guerra nucleare avvenuta in un passato non ben definito. Eppure potremmo definirlo post-post-apocalittico, nel senso che la forza più sensazionalistica dell’olocausto nucleare è lontana. Ci troviamo piuttosto in un mondo in stato di smobilitazione, dove i più ricchi sono volati via nelle colonie spaziali, dove vivono attorniati da replicanti che fungono da servitù. A Deckard non è andata così bene: vive un matrimonio che definire anaffettivo sarebbe un complimento. Si getta a capofitto nel lavoro. Abita in un appartamento ubicato in un colossale condominio dove su centinaia di abitazioni disponibili la quasi totalità è disabitata, tanto che i rumori degli sporadici condomini risaltano come passi nelle profondità di un colossale mausoleo, triste monumento alle passate glorie della civiltà.

Dick e Scott, Blade Runner, 1982
P. K. Dick e R. Scott, 1982

La potenza visiva del film di Ridley Scott – così vibrante e memorabile da essere considerata uno dei miti fondativi del filone cyberpunk – riesce a incanalare alla perfezione questo aspetto. Il futuro di Blade Runner è un futuro nato già vecchio, votato a un’estetica del logoro ove anche gli elementi più futuristici dell’ambientazione risultano qualcosa di sporco, ricoperto da una polvere che non ha tempo.

Una delle differenze più grosse fra le due opere è rappresentata dallo spessore e dall’importanza di Roy Batty, indimenticabilmente interpretato da Rutger Hauer.

Se nel libro il personaggio è ben poca cosa – rimane una delle tante pedine di una cospirazione dei replicanti per emanciparsi dall’umanità, che passa per lo smascheramento del falso profeta Mercer – egli diventa fondamentale nell’economia del film.

Hannah e Hauer in Blade Runner
D. Hannah, R. Hauer, Blade Runner, 1982

Se l’essenza dell’umanità nel libro viene ricavata da una sorta di teologia negativa figliata dal confronto con gli inumani replicanti, il Roy cinematografico, risparmiando Rick, impartisce al personaggio interpretato da Harrison Ford – ma anche e soprattutto al pubblico – un’importante lezione su cosa voglia dire umanità: non si può limitarne il significato all’aspetto biologico perché ogni entità, solo nell’atto di esistere, dà origine ad una serie di sensazioni e interazioni irriproducibili nella loro unicità. Le ultime parole del Roy Batty cinematografico sono entrate prepotentemente nell’immaginario collettivo non solo per la loro possanza, ma anche grazie alla splendida interpretazione di Rutger Hauer, dai cui occhi di un profondo azzurro gelido emerge tutta la sofferenza che viene dall’idea di doversene andare, con il rischio che venga dimenticato tutto ciò a cui ha potuto assistere, tutto ciò che lo definisce come individuo. La morte, grande livellatrice, è ciò che ci ricorda che siamo fragilmente umani, poco importa che si stia parlando di un individuo nato dal grembo materno o di un individuo costruito in una catena di montaggio: tutti condividono il tormento e la fortuna di essere mortali, unici, irreplicabili. Non chiamiamoli quindi replicanti.

So long, Rutger. So long, Roy. Nulla va perso come lacrime nella pioggia finché rimane qualcuno in grado di ricordare. E noi vogliamo ricordarti così…

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