Pandemie e isterie collettive

Storia della colonna infame

Gonin, Illustrazione copertina, 1840
F. Gonin, Illustrazione di Storia della colonna infame, 1840

Se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano

In un periodo storico come quello attuale, in cui l’umanità si trova a combattere contro il Coronavirus, un nemico invisibile e sconosciuto, contro cui nessuno sa cosa fare, non poteva non venirmi in mente un piccolo scritto di Alessandro Manzoni: Storia della colonna infame.

Già, perché ora che siamo tutti alla caccia del fantomatico paziente zero, che ognuno di noi da dietro la mascherina scruta chiunque cercando nel suo volto le tracce della malattia, come a voler dire “non azzardarti a contagiarmi, so che tu sei infetto”, rileggere pagine scritte diversi secoli fa ci fa capire quanto l’umanità non cambi.

Storia della colonna infame parla della peste e degli untori, coloro che di proposito diffondevano la malattia. Si tratta di una storia vera.

Lo scritto di Manzoni

Lapide della colonna infame, 1630
Lapide della colonna infame, 1630

Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera

Alessandro Manzoni inizia l’elaborazione di questo piccolo racconto durante la prima stesura dei Promessi Sposi, anche detta Fermo e Lucia. In origine infatti, avrebbe dovuto essere un breve excursus all’interno del famosissimo romanzo; Manzoni però si rende conto che ha troppo da dire su questa vicenda, e non gli sarebbero bastate poche righe. Così decide di eliminare questa storia dai Promessi Sposi per dedicarle lo spazio che merita.

Nasce cosi un saggio storico, con quella vena narrativa che potrebbe far dimenticare che si tratta di eventi realmente accaduti, vicende legate alla peste di Milano del 1630. La narrazione è intervallata da alcune digressioni riflessive, sulla tortura e su quanto i giuristi si fossero impegnati a combattere contro di essa, pur non condannandola mai apertamente, sulle contraddizioni interne al sistema giudiziario, sui punti oscuri e tutti quelli non contemplati dalle leggi, in cui ogni giudice poteva muoversi come meglio credeva senza subire condanne. Qualcosa di già fatto anche nei Promessi Sposi, ma qui più mirato a evidenziare come l’uomo sia in grado di prendere gli strumenti della giustizia e trasformarli in ingiustizie.

Iniziato negli anni ’20 dell’800, Storia della colonna infame viene pubblicato la prima volta nel 1840, dopo una lunga serie di ritocchi che l’hanno reso un capolavoro letterario e una ferma condanna alla crudeltà umana.

Manzoni e l’uomo

L’effetto che si voleva attribuire a un delitto, il morir tante persone, aveva la sua causa naturale

Manzoni è un attento scrutatore dei tipi umani, e non può farsi sfuggire l’occasione di descrivere la follia dell’uomo di fronte a ciò che non può controllare. Le prime righe dell’introduzione raccontano già tutto al lettore, con la caratteristica critica manzoniana:
Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.

La storia della Storia della colonna infame

Grida di condanna, 29 luglio 1630
Grida di condanna, 29 luglio 1630

Il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati

La storia narrata avviene a Milano, nel 1630. Il 21 giugno, all’alba, una donna di nome Caterina Rosa vede un uomo passare in via della Vetra de’ Cittadini; quell’uomo cammina radente alle mura, con una carta in mano, sulla quale “pareua che scrivesse”. La mente può giocare brutti scherzi, e gli occhi di primo mattino non sono così affidabili; eppure Caterina Rosa dà loro credito, e denuncia che l’uomo stava ungendo i muri della città per diffondere la peste. Come tutte le voci, non ci vuole molto prima che un’altra donna sua vicina, Ottavia Bono, ripeta la stessa storia.

A nessuna delle due donne viene in mente che l’uomo passasse radente al muro a causa della pioggia che quella mattina cadeva su Milano. A nessuna delle due viene in mente che potesse avere una penna e un calamaio: il pensiero andò subito a un vasetto per unzioni, e l’urgenza fu quella di fornire indizi per individuare quel colpevole e farlo arrestare.

Dalla descrizione, viene presto individuato il commissario di sanità Guglielmo Piazza, e il 22 giugno è arrestato. Subissato di domande, l’uomo non capisce assolutamente di cosa i suoi accusatori stiano parlando. E quelli si guardano bene dal chiarirgli la situazione; infatti, andando contro alle leggi “non gli era stato detto di cosa fosse imputato”. A nulla vale il ripetuto “non ne so niente” del Piazza. Gli esaminatori “non cercavano la verità, ma volevano una confessione”. E così il commissario di sanità viene messo alla tortura.

Ricapitolando gli indizi contro il Piazza: due donne l’avevano visto toccare qualche muro; i magistrati avevano visto alcuni segni di una materia untuosa su quei muri e in un andito in cui il Piazza non era entrato. La legge era dalla parte del Piazza, ma i giudici no.

Visto che però neanche le torture prolungate funzionano, gli esaminatori (così erano definiti quelli che dovevano fare il lavoro sporco e portare una perfetta confessione ai giudici) tentano un’altra strada. Promettono a Guglielmo l’impunità purché dica tutta la verità; e faccia i nomi dei suoi complici.

Un uomo condannato a torture ripetute cosa può fare, se non cercare di intraprendere la via di fuga che pare gli venga offerta? Ma che nomi fare per dare risposte soddisfacenti, se non quelli di qualcuno che si conosce? Perché in qualche modo la storia deve sembrare credibile.

E così Guglielmo Piazza fa il nome di Giangiacomo Mora, il barbiere/erborista che preparava un unguento contro la peste. Pochi giorni prima Guglielmo aveva incontrato il Mora, e da qui parte per inventare la sua storia: il barbiere gli avrebbe consegnato un vasetto per diffondere la pestilenza, in cambio di soldi; anche lui infatti ci avrebbe guadagnato, essendo l’unico a vendere un rimedio contro la malattia.

Gli auditori, alla ricerca famelica di nomi, sembrano accettare questa versione, e sottopongono il Piazza a un’altra dose di torture. Solo così infatti, diceva la legge, si poteva validare la parola di un reo.

L’auditore si reca subito dal Mora, che si trova in bottega con il figlio; entrambi vengono arrestati. “Anche per procedere alla cattura ci volevano degl’indizi. E qui non c’era né fama, né fuga, né querela d’un offeso, né accusa di persona degna di fede, né deposizion di testimoni; non c’era alcun corpo del delitto; non c’era altro che il detto d’un supposto complice”. Parte subito la perquisizione: viene trovata una ricetta, di cui si chiedono informazioni al Mora, che istintivamente, preso dal panico, la straccia; nel cortile poi viene trovata una sostanza viscosa biancastra. Segni che vengono letti come chiari indizi di colpevolezza.

Con il Mora si ripete la stessa scena già vista con il Piazza. Le domande si susseguono, ma senza mai dire all’imputato di cosa sia accusato. Ogni volta che Giangiacomo nega, gli viene detto che ci sono chiari indizi della sua colpevolezza, senza elencarli ovviamente. Il tutto fino a quando i due indiziati vengono messi l’uno di fronte all’altro. Il Piazza ribadisce le sue accuse, sperando di salvarsi. Il Mora, basito, si intestardisce a negare.

Gli accusatori però, una volta preso il Mora, continuano a torchiare anche il Piazza. Improvvisamente la sua “confessione”, che era andata benissimo per arrestare un uomo in più, ha dell’inverosimile: “trovaron l’inverisimiglianza, quando poteva essere un pretesto alla tortura del Piazza; non la trovarono quando sarebbe stata un ostacolo troppo manifesto alla cattura del Mora”. Il Piazza, desideroso dell’impunità promessagli, pontifica cercando di capire cosa vogliano sentirsi dire da lui, tra una tortura e l’altra.

Al Mora non va meglio. Anche il barbiere è sottoposto a ripetute torture finché non cede: racconta che ha dato al Piazza l’unguento per diffondere la pestilenza, ma solo dietro a sua richiesta e solo nella speranza di guadagnare molto vendendo il rimedio. “E si vede che questo rovesciarsi l’uno sull’altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno la sua, quanto per sottrarsi all’impegno di spiegar cose che non erano spiegabili”.

Mentre i difensori della legge a Milano si divertono a passare dal Piazza al Mora e viceversa per infliggere torture e lanciare nuove accuse, il senato pronuncia la sua sentenza, che il Manzoni sintetizza così: “vedete di cavar dall’uno e dall’altro quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla sua confessione, benché siano due confessioni contrarie”. Infatti agli imputati vengono concessi due giorni per confessare tutta la verità, prima dell’esecuzione.

Mentre il Mora sembra ormai rassegnato alla morte, il Piazza pensa di fare il nome di un grand’uomo per prendere tempo; “se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all’entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli”. Dato che girava voce che fossero ufficiali spagnoli a diffondere la peste, Guglielmo fa il nome del capitano di cavalleria, nonché figlio del comandante del Castello, Giovanni Padilla; questo perché data la fama e l’importante posizione coperta da suo padre, avrebbe facilmente fatto saltare il processo, permettendo al Mora e al Piazza di salvarsi. Il Padilla verrà interrogato, ma alle sue negazioni si risponderà con la scarcerazione e la caduta delle accuse a suo carico; un personaggio troppo importante per inimicarselo. Ma questo avverrà solo molto tempo dopo.

Tra un’invenzione e l’altra, il Piazza e il Mora riescono a rimandare i termini per alcuni mesi, durante i quali restano incarcerati e sono ciclicamente sottoposti a tortura. La speranza di salvezza si infrange il 1 agosto, quando i due vengono condotti al supplizio: “tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame”.

Queste prime due vittime innocenti furono presto raggiunte da due arrotini, Girolamo e Gaspare Migliavacca, che avevano avuto la sfortuna di essere citati in quelle invenzioni disperate fatte col solo scopo di salvarsi.

Il Padilla viene assolto nel maggio del 1632, e così si chiude definitivamente il sipario su questa storia, presto dimenticata.

Quando, tra vili case e in mezzo a poche
Rovine, i’ vidi ignobil piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna sorge
In fra l’erbe infeconde e i sassi e il lezzo,
Ov’uom mai non penetra, però ch’indi
Genio propizio all’insubre cittade
Ognun rimove, alto gridando; lungi,
O buon cittadin, lungi, che il suolo
Miserabile infame non v’infetti.

(Giuseppe Parini)

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