“A play is play” – “Recitare è gioco”

Peter Brook. Lo spazio vuoto

Brook, 1995
P. Brook, 1995

Per i non addetti ai lavori sentire parlare di teatro è spesso sinonimo di finzione. In The empty space, l’autore Peter Brook scompone lo spettacolo di tutti i suoi blocchi, dall’importanza dello spazio, all’uso che fa l’attore della scena. Perché agire una scena priva di alcun oggetto scenico, di luci, suoni, sembra semplice ma non lo è. E l’attore è colui che quando entra in scena è in grado di prendere lo spazio e renderlo vivo. Attraverso i suoi occhi noi vediamo lo spettacolo che ci narra. L’attore è la vita sul palco. Senza di lui lo spettacolo non esiste.

 

Peter Brook: una breve introduzione

Brook, The Tightrope, 2012
P. Brook, The Tightrope, 2012

Peter Brook è un regista britannico in attività da oltre cinquant’anni. Ha diretto centinaia tra film e spettacoli di teatro in tutto il mondo. Oltre ad essere regista, Brook è anche sceneggiatore e, sebbene lui stesso non si consideri un maestro, pedagogo. Nel 1968, con l’opera Lo spazio vuoto, descrive il suo pensiero sulla situazione teatrale e sulle diverse forme teatrali presenti nell’ampio panorama mondiale. Insegna l’uso dello spazio, della scena. In particolare si concentra sul lavoro dell’attore, senza imporsi, ma imbeccandolo nel momento giusto e con la battuta giusta per dimostrare quello che vuole dire. Lo spazio vuoto è un testo che ha più di cinquant’anni, eppure viene tuttora insegnato nei corsi di teatro, nelle università e nelle accademie. Viene considerato uno dei libri all’avanguardia dell’universo teatrale.

L’ultima volta in Italia, Peter Brook è stato protagonista con la regia de Il flauto magico al Piccolo Teatro di Milano nel 2011. Nel 2012 invece ha interpretato sé stesso in The Tightrope. Il film, ripreso con cinque telecamere nascoste, rivela i segreti del metodo di recitazione del regista. Un film che attraverso l’universo sconfinato delle pratiche di Brook che, insieme a vecchi compagni di lavoro e a nuovi talenti, ci porta all’interno della messinscena di The Tightrope. Un film che non solo mette a nudo i particolari di una pratica, ma ci mostra il regista in tutta la sua essenza.

Tra i suoi film più importanti non si può non ricordare Il Mahabharata del 1989. Mentre tra le sue opere di formazione più importanti citiamo Il punto fermo e La porta aperta.

Lo spazio vuoto

Brook, The Empty Space, 1968
P. Brook, The Empty Space, 1968

Nel testo, il discorso sul teatro si snoda non solo lungo i variopinti aspetti tecnici di questo mestiere, ricco soprattutto di rischi. Rischi molteplici, come mettere in scena qualcosa di inerte, privo di sentimento, vuoto, mortale. L’opera di Brook non vuole mostrare solo il lato razionale dello spettacolo.

Leggendo più in profondità, Lo spazio vuoto è un’opera che ci parla del senso della vita e della morte, dove il teatro viene concepito – come spesso accade – come una metafora del reale. Da qui ci interroghiamo sulla relazione tra il fare teatro inteso come metafora della vita e il fare teatro inteso come progetto, come disegno del mondo, come forma d’insegnamento.

La fine degli anni Novanta, così come i primi Duemila, ha visto il panorama teatrale sommerso da quello che Brook definisce “teatro mortale”, cioè teatro cultura: un prodotto ben confezionato e ambientato in spazi – i teatri – che ne manipolano spettacolo e significato. La domanda di fondo che infatti viene più volta riproposta da Brook è “perché continuare a fare teatro in un mondo che cambia e in cui il teatro non si identifica più con l’universo stesso dello spettacolo?”.

Il testo di Brook si suddivide in quattro parti, ognuna volta ad evidenziare un diverso spazio teatrale: il teatro mortale, il teatro sacro, il teatro ruvido e il teatro immediato.

Come già scritto in precedenza, il teatro mortale è un forma di teatro cultura che possiamo considerare l’opposto dello spettacolo commerciale.

Il teatro sacro si può considerare come il “Teatro-dell’Invisibile – Reso-Visibile”. L’idea del palcoscenico come spazio dove la nostra immaginazione può essere libera di creare qualsivoglia scenografia fa sì che il pubblico diventi più consapevole di quante “cose” si perde ogni giorno: eventi, emozioni, sensazioni. Evocare ci permette di dare ascolto ai nostri sensi.

Per teatro ruvido intendiamo un teatro popolare, sempre esistito e legato al senso di “ruvidezza”,  all’occupazione di spazi teatrali diversi dai teatri: dai sagrati delle chiese ai carri, dalle piazze del paese ai solai. Dotato di una scenografia rozza e ridotta ai minimi termini, è una forma di teatro vicina alla gente.

Con teatro immediato finiamo invece in un luogo molto particolare. Qui si sfrutta l’improvvisazione durante le prove, così da allontanare il teatro mortale dall’opera da portare in scena. I registi lasciano che l’attore non sia un burattino ma un creativo. L’obiettivo è liberarsi della menzogna in modo da rendere vivo l’attore sulla scena. Qui la messinscena riunisce tutte le forme precedenti con l’agguato del mortale ogni volta terminato lo spettacolo. Per questo non bisogna mai fermare la ricerca e continuare a sperimentare.

Queste quattro forme illustrate da Peter Brook permettono al teatro di avanzare con il movimento del granchio lungo la linea del tempo, sicuri che ancora per molto tempo non ci sarà una linea guida tale da creare uno stile mondiale per un teatro del mondo, com’era nei teatri di prosa e in quelli d’opera nel XIX secolo.

In conclusione…

Brook on stage
P. Brook on stage

Brook ci porta in una realtà, quella teatrale, che “non separa più l’attore dal pubblico, lo spettacolo dallo spettatore, ma li comprende entrambi”. “Ma, a differenza di un libro, il teatro si può sempre ricominciare daccapo”. Durante la nostra esistenza le foglie sugli alberi seguono sempre le stagioni, ingiallendo e cadendo in autunno per poi tornare a gemmare in primavera. Noi non possiamo “far tornare indietro le lancette dell’orologio. Non possiamo avere una seconda opportunità. In teatro la lavagna torna ogni volta pulita”.

 

Prossimamente…

Jerzy Grotowski, Per un teatro povero.

Durante lo stesso periodo storico in cui esce The empty space, un altro libro di un illustre pedagogo teatrale viene pubblicato e diffuso in Italia più del testo di Brook. Jerzy Grotowski, con l’opera Per un teatro povero, elimina tutto ciò che si può considerare superfluo nella messinscena. Il suo impegno profuso nell’insegnamento dell’arte teatrale porta l’attore al centro della scena, decontestualizzandolo, vestendolo di nero e illuminandolo solo con una candela. Perché l’attore esiste solo se c’è un pubblico. E non occorre altro se non quel qualcosa, espresso dalle profondità del corpo, attraverso la voce e la fantasia generata dal vissuto dell’attore in scena.

Con Grotowski perdono d’importanza le maestose scenografie e le macchine teatrali, così come l’illuminotecnica e le musiche. L’attore diventa il centro della scena. Ma di questo vi parleremo in maniera più approfondita la prossima volta.

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