Le immagini delle feste

La Pasqua

L’arte cristiana rappresenta un momento cruciale per l’arte europea. La Chiesa infatti era tra i pochissimi mecenati a potersi permettere opere estremamente costose, fatte dai migliori maestri con i più pregiati materiali. E per lungo tempo la Chiesa fu anche la maggiore promotrice degli artisti, permettendo loro di esprimere la propria abilità tecnica. Non fu altrettanto aperta per quanto riguardava invece le rappresentazioni, per molti secoli canonizzate e imposte per essere comprensibili ai fedeli, tendenzialmente analfabeti.

Tra le immagini che si associano alla Chiesa, la più importante è il crocifisso. Un’immagine fondamentale per il dogma cristiano, che sintetizza tutta l’essenza della fede: Dio che si fa uomo, che muore e risorge per l’umanità. La feste più importante dei cristiani, la Pasqua.

Ma se tutti noi abbiamo presente il Cristo in croce, dobbiamo sapere che non sempre fu così. Fino all’anno Mille infatti la rappresentazione della crocifissione era inesistente. Tutto il mistero cristiano si risolveva nell’immagine della croce, senza il corpo di Cristo su di essa. Frutto probabilmente del periodo iconoclasta che dominò l’Impero bizantino dall’VIII secolo. I cristiani si ribellarono al rifiuto delle immagini, e l’Occidente sentì solo l’eco delle idee iconoclaste. Eppure evidentemente qualcosa arrivò, qualcosa di così forte da non far neanche venire in mente che sulla croce doveva esserci Gesù.

Dal Basso Medioevo, quindi dopo l’anno Mille, l’uomo rivendicò la sua vicinanza a Dio attraverso le immagini. E così sulla croce venne raffigurato anche il corpo di Cristo, quel corpo umano che rendeva l’uomo la concretizzazione terrena della perfezione celeste. Il mistero pasquale, il cuore della fede cristiana, si basa sulla resurrezione di Cristo: il figlio di Dio Padre ha vinto la morte. E proprio l’immagine del vincitore venne posta sulla croce. Un uomo forte, fisicamente perfetto, con gli occhi aperti, con la corona sul capo. L’eroe dell’umanità.

Qualcosa di dimentico delle sofferenze che la tortura della crocifissione, realmente praticata durante l’Impero romano, infliggeva a quanti erano sottoposti a questo supplizio. In realtà si trattava di una morte atroce, inflitta solo ai “peggiori”: schiavi, prigionieri di guerra e rivoltosi. Non solo i chiodi infilati nei polsi e nelle caviglie, ma le gambe venivano rotte, e a tutte queste sofferenze si aggiungevano la fame e la sete; ci volevano molte ore o addirittura giorni per morire, per asfissia o per collasso cardiorespiratorio, perché le gambe, fratturate, non sostenevano più il peso del corpo. Una vera e propria tortura. Per quanto divino, neanche Cristo sarebbe riuscito a sopportare tutto questo con l’aspetto del vincitore. Ma il Medioevo aveva bisogno di un eroe, e allora dominò incontrastata l’immagine del Cristo triumphans.

L’immagine del Cristo trionfante domina per almeno due secoli, dalla Croce di Maestro Guglielmo di Sarzana alla Croce della Chiesa del Santo Sepolcro di Pisa, passando per infiniti altri esempi tra bassorilievi, sculture lignee, miniature e pitture. Ancora verso gli anni ’30 del ‘200 Berlinghiero Berlinghieri realizza un Cristo trionfante. Ma le cose stanno per cambiare.

L’uomo cambia. I tempi cambiano. E se fino a poco tempo prima si sentiva il bisogno di un Dio forte e invincibile, verso la metà del ‘200 lo si volle più umano. La sensibilità aumentò, o forse era solo il bisogno di sentire che Cristo in fin dei conti era un uomo come tutti; divino, ma uomo come tutti. E così si iniziò a concentrarsi sull’agonia, sulla sofferenza, sul percorso che lo portò a morire in croce. I tradimenti, le accuse, gli oltraggi, gli sbeffeggi, tutto venne portato alla luce. Non a caso, fu proprio in questo periodo che nacque la forma devozionale della via crucis. Con un punto di vista così diverso sulla Passione di Cristo, era inevitabile che anche la rappresentazione cambiasse. Nacque il Cristo patiens, il Cristo sofferente.

L’uomo che, pur essendo figlio di Dio, soffrì come tutti gli uomini. Il Dio che, pur sapendo a quali atroci torture sarebbe andato incontro, si fece uomo e le visse sulla propria pelle, sulla propria carne; colui che si fece portare via la propria vita per gli altri. Quasi un eroe decadente, uno sconfitto vittorioso nella sua scelta altruista.

Il Cristo in croce si è fatto uomo, e ci mostra tutta la sofferenza che ha patito, che gli è stata inflitta per salvare l’umanità: il capo abbandonato sulla spalla, il corpo incurvato sotto il suo stesso peso, gli occhi chiusi. Verso il 1250 Giunta Pisano realizzò un esempio di questo nuovo modo di rappresentare la crocifissione per la Chiesa di San Domenico di Bologna. Non passarono molti anni prima che anche Cimabue si cimentasse in questo soggetto, dando più importanza alla resa naturalistica del corpo di Cristo per sottolineare l’umanità del figlio di Dio.

Cimabue aprì la strada a una rivoluzione artistica che non si fermò, da Giotto al Rinascimento, dal nord al sud, dalla pittura alla scultura. Il lato umano di Cristo assunse sempre più rilevanza. Il suo corpo reso con verosimiglianza: i colpi inferti, il pallore della pelle, l’abbandono del corpo morto.

Passarono i secoli, ma non si tornò più al Cristo trionfante sulla morte. Quel trionfo gli costò paura, terrore, la supplica al Padre di “allontanare quel calice”; gli costò dolore, sofferenza, insulti, sberleffi, sangue; gli costò la vita. E l’uomo, nel Cristo sofferente, ritrova la sua umanità provando pietà nel vedere quell’uomo che muore.

L’uomo non si dimentichi mai del dolore. Affinché dal dolore riesca a far nascere il bene.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.