Carlo Goldoni e Il teatro comico

Pitteri, Ritratto di Carlo Goldoni, 1754
M.A. Pitteri da G.B. Piazzetta, Ritratto di Carlo Goldoni, 1754

Carlo Goldoni – Il destino di un drammaturgo

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, Carlo Goldoni abbandona per alcuni anni l’attività di commediografo per svolgere quella di avvocato. Durante questi quattro anni scrive, su richiesta dell’arlecchino Sacchi, Il servitore di due padroni e successivamente, su richiesta del Pantalone Cesare D’Arbes, I due gemelli veneziani. Goldoni a questo punto sente che il suo destino è legato al teatro e al ruolo di poeta di compagnia. Lasciata per sempre l’avvocatura nell’aprile del 1748, Goldoni abbandona Pisa per ritornare a Venezia.

Il giorno di Santo Stefano dello stesso anno La vedova scaltra viene acclamata dal pubblico. Inizia il suo secondo periodo, quello delle grandi vittorie e delle poche sconfitte, che durerà fino al carnevale del 1753.

Il manifesto di Goldoni

Goldoni si trova dinanzi a un’impresa di proporzioni storiche: abbandonare la commedia dell’improvvisa, propria della commedia delle maschere, senza partire dalla tradizione letteraria ma dal linguaggio e dalla materia che hanno sempre contraddistinto proprio la commedia dell’arte.

Come poeta della Compagnia Medebach, il suo successo sta nell’operare gradualmente su una compagnia, almeno nella sua prima fase di collaborazione, sotto certi aspetti sperimentale, e disposta quindi ad assecondare le richieste innovative e piscologiche che Goldoni esprime in particolar modo nei riferimenti e nella prefazione all’edizione Pasquali della pièce manifesto Il teatro comico, che andremo a osservare nel dettaglio al termine dell’articolo.

Il merito del drammaturgo sta proprio nel gestire al meglio il potenziale dei suoi interpreti, sfruttandone gradualmente la disponibilità psicologica, prima che tecnica, ad abbandonare quel che la commedia a soggetto aveva impostato.

Il rapporto con il pubblico

Il compito più arduo è però quello di conquistare un pubblico acerbo, legato alla commedia delle maschere e legato alla concezione di un teatro ormai datato che il suo rivale, l’abate Chiari, non avrebbe comunque potuto resuscitare.

Goldoni parte dalla convinzione che la realtà contemporanea è più teatrabile, ricca di sorprese e di imprevisti, di invenzioni, dei lazzi dei comici. Con la riforma, il suo teatro inizia ad assumere una forma accorta e audace di sperimentazione, che va dalla commedia di carattere a quella d’ambiente, dalla drammaturgia borghese a quella popolare, fino alla commedia senza maschere. Il pubblico accoglie le scelte dell’autore, partecipando e riempiendo il teatro durante i suoi spettacoli.

Goldoni nei suoi quattro anni al Teatro Sant’Angelo scrive una tale varietà di proposte di genere che non solo crea il nuovo teatro italiano, ma ha anche quel respiro europeo tale da anticipare autori come Diderot in Francia e Lessing in Germania.

L’uso della lingua

Lo strumento principale di questa riforma è la lingua stessa. Lontana dagli stereotipi della commedia dell’arte e dalle astrattezze dei letterari accademici, la lingua per Goldoni è “sullo stesso terreno della moda, del costume, del gusto mutevole, con una sensibilità geografica e cronistica che è ancora fuori dalla storia, ma è legata a un vario panorama di popoli, di regioni, di classi sociali, a una géographie des moeurs”, come dice il filologo Gianfranco Folena.

È infatti l’uso che ne fa nella sua varietà e articolazione, tra veneziano, italiano e francese, l’elemento determinante dell’arte di drammaturgo che produce la sintesi tra Mondo e Teatro.

Goldoni, nei quattro anni e poco più come poeta della compagnia Medebach, scrive quarantadue commedie. Tra le più famose possiamo citare La bottega del caffè, Il bugiardo e La locandiera.

Il suo successo non passa inosservato e nel 1753 lascia il Teatro Sant’Angelo per il San Luca, dove la compagnia con cui si ritrova a lavorare non ha lo stesso affiatamento di quella che ha appena lasciato. Qui inizia il suo terzo periodo, e noi vi diamo appuntamento al prossimo articolo.

Prima di andare però, vi lasciamo con una breve excursus sulla prefazione de Il teatro comico.

Il teatro comico

Goldoni, in una lettera all’editore con luogo e data, Torino 1751, pone una prefazione a questa sua opera manifesto che lui stesso definisce “piuttosto che una Commedia, Prefazione alle mie Commedie”.

Nello spiegarvi quali innovazioni introduce Goldoni nell’arte teatrale, cediamo la parola al grande drammaturgo, che saprà essere più chiaro di noi nello spiegare il suo punto di vista:

In questa qualunque siasi composizione, ho inteso di palesemente notare una gran parte di que’ difetti che ho procurato sfuggire, e tutti que’ fondamenti su’ quali il metodo mio ho stabilito, nel comporre le mie Commedie, né altra evvi diversità fra un proemio e questo componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i Leggitori più facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione.
Io perciò non intesi di dar nuove regole altrui, ma solamente di far conoscere, che con lunghe osservazioni, e con esercizio quasi continuo, son giunto al fine di aprirmi una via da poter camminare per essa con qualche specie di sicurezza maggiore; di che non fia scarsa prova il gradimento che trovano fra gli Spettatori le mie Commedie. Io avrei desiderio che qualunque persona si dà a comporre, in ogni qualità di studio, altrui notificasse per qual cammino si è avviata, perciocché alle arti servirebbe sempre di lume e miglioramento”.

Goldoni non vuole dare nuove regole, ma far conoscere come, con lungo esercizio, osservando e scrivendo, ora si sente più sicuro nella sua arte. Ciò vuole fungere da stimolo nei confronti di qualunque persona che può ottenere sicurezza solo con il costante esercizio e, con il suo punto di vista, può dare nuova linfa vitale all’arte.

L’autore, nella sua umiltà, chiede che qualche nobile d’ingegno metta mano nel perfezionare le sue opere, così da “rendere lo smarrito onore alle nostre Scene con le buone Commedie”. Continuando, l’autore dice: “non mi vergognerò mai di apprendere da chicchessia, quando abbia capacità d’insegnare”.

L’opera

Rappresentata in scena per due sole sere, il 5 e 6 ottobre 1750, seppur non abbia avuto gran fortuna né allora né oggi, Il teatro comico resta l’opera manifesto di Goldoni, un testo programmatico alla maniera dell’Impromptu di Molière, che ne è il modello e insieme un gioco scenico che trae situazioni di varia fattura tra il vecchio e il nuovo teatro, tra tradizione dell’arte e drammaturgia originale e moderna.

La carta vincente è quella di rappresentare non una generica compagnia di comici, ma la compagnia Medebach con tutti i suoi componenti e con nomi che non nascondono la loro identità. Giocando a carte scoperte l’autore porta l’azione de Il teatro comico a un malizioso e divertito smantellamento dei principi stessi della commedia a soggetto e a un recupero di una categoria sempre più degradata, ossia quella degli attori.

L’attenzione di Goldoni si concentra, a differenza di quanto fanno i suoi rivali, sull’onorare il comico. Egli deve conoscere il suo dovere, deve essere amante dell’onore e di tutte le virtù morali. Una moralità questa, che deve essere la stessa della nuova drammaturgia.

“ANSELMO:   La commedia l’è stata inventada per corregger i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi; e quando le commedie dai antighi se faceva così, tutto el popol decideva, perché vedendo la copia d’un carattere in scena, ognuno trovava o in se stesso, o in qualche d’un altro, l’Original”.

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